“La Biennale di Lisbona ha il suo videomaker torinese. Si chiama Alessandro Amaducci, classe 1966, laureato in Storia e Critica del Cinema all’Università di Torino con una tesi sulla videoarte. Si interessa di video, da un punto di vista critico e realizzativo, da molti anni e le sue attività sono diverse. (...) È uno dei pochi artisti torinesi ad occuparsi di ricerca video e due suoi lavori, Illuminazioni e Voci di donna, sono stati selezionati per la Biennale di Lisbona.
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MDG: Ma che cos’è la videoarte per Alessandro Amaducci?
AA: Potrei rispondere con una frase di Bill Viola, l’artista americano, che ha detto “Quando devo spiegare che cos’è la videoarte ad uno che non ne sa nulla, gli dico di immaginare un mondo in cui la letteratura e l’intrattenimento e l’informazione siano rappresentati dalla televisione, mentre la poesia è rappresentata dalla videoarte.” È una risposta per me illuminante perché sintetizza come la videoarte si sia opposta all’utilizzo commerciale e istituzionale che la televisione fa dell’immagine elettronica. La videocreazione cerca di avere una maggiore intensità visiva e sonora, utilizza il mezzo in maniera più specifica e si rapporta con lo spettatore evitando una fruizione passiva dell’opera d’arte.
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MDG: Prova a fare una rapida storia della videoarte.
AA: Alla base di tutto c’è il cinema astratto degli anni ’20 (Richter, Fischinger, Eggeling e Ruttmann) e il cinema d’avanguardia degli anni ’60 (Brakhage, Snow e Warhol). Da queste esperienze sono nate le prime sperimentazioni video americane legate al mondo dell’arte con Nam June Paik, Vostell e Vasulka. Ma la vera rivoluzione è avvenuta negli anni ’70 con la vendita di attrezzature video “leggere” e alla portata di tutti. Da quel momento il concetto di video si è espanso in generi e formati differenti. (...)
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MDG: Quali sono per te i punti di riferimento in Italia e all’estero?
AA: Un’opera che mi ha particolarmente segnato è Ballet Mecanique di Léger. Ho capito che il cinema aveva la possibilità di esprimere profondi significati senza dover necessariamente raccontare una storia. Per questo mi piacciono i registi di cinema che si pongono anche problemi relativi al linguaggio cinematografico, come Kubrick (di 2001 Odissea nello spazio e Arancia meccanica), Bunuel, Scorsese e De Palma. Senza dimenticare Greenaway e Jarman, tra i pochi ad aver adoperato l’immagine elettronica nel cinema con molto coraggio. In Italia le esperienze più significative sono quelle di Giacomo Verde, che in Stati d’animo ha proposto un linguaggio sofisticato e poetico, e le immagini patinate di Studio Azzurro di Milano, soprattutto nel Combattimento di Ettore e Achille.
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MDG: Come definiresti il tuo modo di fare video?
AA: Il punto di partenza è l’avanguardia artistica dadaista: se vuoi cambiare il mondo devi cambiare le immagini del mondo. E il mio modo di fare videoarte è un po’ come vedere un quadro astratto di Kandinskij, dove le linee e i colori sono la visualizzazione di un organismo di cellule. È importante osservare ciò che sta dentro la realtà e non la sua superficie. E la realtà è di per se stessa caotica e priva di logica. Il cinema tradizionale cerca di raccontare storie in cui la vita di ciascuno di noi è legata ad eventi logici, consequenziali, e strutturati; ma in realtà le avanguardie dimostrano come la nostra vita sia legata al caos, al disordine, all’imprevedibilità. Visualizzare modelli differenti del mondo significa perciò cercare di vivere il mondo in maniera diversa e comunicare questa “sovversione” agli altri. Con le mie opere cerco di dimostrare che l’essere differenti non è solo un modello teorico, ma anche un modello di vita. Nel visualizzare le cose, lavoro principalmente su due coordinate: lo spazio e il tempo. Le immagini di Illuminazioni e Voci di donna propongono diversi modelli di spazio (con immagini sovrapposte, moltiplicate all’interno dello schermo, colorate...) e una diversa concezione del tempo (la sintesi narrativa, la non-consequenzialità, la durata, la poesia figurativa...)
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MDG: Le tue opere propongono un diverso tipo di fruizione rispetto alle consuete storie del cinema e della televisione.
AA: Certamente. Io voglio combattere le immagini del mondo alle quali siamo abituati sin da piccoli. Voglio abbattere le regole della logica consequenziale e della narratività perché la nostra stessa vita non è un racconto che avanza per fasi prestabilite, ma procede per incidenti ed eventi irripetibili e caotici, indeterminabili. Le mie opere hanno quindi la stessa logica sintetica dei pensieri che si accavallano e si sovrappongono nella testa, anche se noi siamo abituati ad esprimerli secondo regole codificate dal linguaggio verbale o scritto. Non sono ricerche tanto avulse dalla realtà come si potrebbe credere, visto che molte ricerche della videoarte hanno poi una applicazione commerciale negli spot pubblicitari e nei videoclip musicali. Si possono ricevere sensazioni visive e comprendere discorsi visivi anche se non c’è una storia.
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MDG: Più in particolare, ci spieghi le opere selezionate per Lisbona?
AA: Illuminazioni è basato su alcune poesie in prosa di Arthur Rimbaud vorrebbe essere un po’ la summa di tutta la mia poetica. Non è solo un documentario “poetico”, ma un tentativo di ricreare visivamente l’immaginario del poeta simbolista francese visto però da un’ottica contemporanea. Alcune attrici recitano testi, ma la loro presenza è ridotta a puri corpi o volti elaborate che scorrono sullo schermo. È un video dal forte impatto visivo. Voci di donna è differente. È una falsa documentazione di uno spettacolo di danza, dove le immagini non riportano temporalmente i movimenti delle ballerine. Ad esempio il corpo e il movimento sono moltiplicati all’infinito nello spazio creando una coreografia artificiale. Il video manipola e ricrea la realtà. Per questo mi affascina così tanto.”
Domenico De Gaetano, Videoarte torinese a Lisbona, Informagiovani Novembre/Dicembre 1994, Torino, Centro Informagiovani, pg. 32