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Attualità digitale e destino Cyberpunk. Intervista ad Alessandro Amaducci

Livio Pareschi

“Sono sempre stato convinto, in maniera un po’ fantascientifica e cyberpunk, che il digitale abbia una sorta di inconscio tecnologico”


Intervista ad Alessandro Amaducci

Viviamo in un presente di costante implementazione digitale e svolte tecnologiche cruciali. Per riuscire ad orientarsi tra le impalcature del nuovo mondo in codice binario c’è bisogno di persone capaci di immaginare un futuro lontano; così avanti nel tempo da essere già qui. Insieme al prof. di videoarte dell’università di Torino Alessandro Amaducci proviamo a scorgere le linee guida della nostra attualità digitale.

Livio Pareschi – Sul sito delle Edizioni Lindau vieni definito videoartista, documentarista, realizzatore di videoclip e spettacoli multimediali, oltre che docente presso l’università di Torino. Quali di questi appellativi senti più tuo?

Alessandro Amaducci – Un po’ tutti in verità, ma aggiungerei le fotografie digitali: ultimamente sto lavorando anche sull’immagine fissa per progetti da esporre in galleria. All’interno del mondo artistico contemporaneo c’è tanto video e spesso manca l’oggetto statico. I documentari invece li ho un po’ abbandonati, ma ho ricominciato da poco a fare videoclip musicali, mentre i live video e spettacoli multimediali sono sempre più rari. In generale, fa tutto parte di un grande "cappello" che potrei definire di ricerca. 


LP – L’ambiente della fotografia lo stai percependo come un’espansione di ciò che già facevi o lo stai esplorando come una frontiera totalmente nuova?

AA – In realtà ho iniziato proprio come fotografo e fumettista, quindi ho sempre avuto un interesse per la bidimensionalità dell’immagine. Ricominciare a lavorare sulla fotografia digitale è stato un ritorno al primo amore per un’attività che avevo abbandonato. Queste immagini sono il corrispettivo statico del lavoro dinamico che faccio in video, sono due elementi integrati: il video senza la foto non avrebbe molto senso, quindi anche dal punto di vista dell’allestimento accosto i due media. E poi mi diverte perché spesso nelle fotografie uso molta computer grafica, solitamente usata per immagini in movimento, e la schiaccio in una dimensione bidimensionale e oggettuale. Il fatto che la computer grafica diventi un oggetto da appendere mi diverte perché è quasi in contraddizione rispetto al medium originale. Mi diverto anche ad usare la computer grafica all’interno dei video in modo statico, come nel caso di Post rebis e Remake Remodel, dove le statue sono in realtà scannerizzazioni 3D di corpi reali. 

LP – All’interno del magazine abbiamo iniziato a parlare di arte realizzata attraverso Intelligenze artificiali, qual è la tua idea in merito? 

AA – È una questione vasta che mi interessa molto. Infatti al momento sto lavorando ad una serie di video chiamata Electric self anthology, in cui immagino che dentro al computer ci sia un mondo autonomo indipendente formato dalla contaminazione tra le immagini che abbiamo scaraventato su internet e la visione che la macchina ha di queste, una specie di punto di vista della macchina rispetto al nostro immaginario. Sono sempre stato convinto, in maniera un po’ fantascientifica e cyberpunk, che il digitale abbia una sorta di inconscio tecnologico. È ciò che mi viene in mente pensando al deep learning, ovvero la capacità che la macchina ha di imparare autonomamente sulla base dei dati che possiede e produrre contenuti nuovi.

L’automazione tout court dei processi creativi e la mera mimesi meccanica mi interessano poco. L’idea di un algoritmo che dipinge un ritratto o scrive una sceneggiatura è molto trendy, ma per me finisce lì.. Mi interessano le collaborazioni o le collisioni, anche violente, tra umano e macchina. Ad esempio, ultimamente sto utilizzando dei software A.I. che lavorano sull’immagine, una di queste attua un rotoscoping automatico e mappa delle immagini su delle forme. Al programma ho chiesto di fare delle cose per le quali non era stato progettato e di conseguenza ha generato errori, ma questi più interessanti del risultato che mi aspettavo. 

LP – Questo momento storico ci costringe ad avere un legame sempre più stretto con le nuove tecnologie, basti pensare al fatto che la maggior parte delle nostre giornate le passiamo davanti a un PC. Citando il manifesto darktech “qual è il confine tra ottimismo per le nuove tecnologie e la paura che queste possano danneggiarci?”

AA – Anagraficamente sono uno dei tanti che vedeva in internet, alla sua nascita, un territorio di libertà. Abbiamo dovuto ricrederci; Sean Parker incluso: era felicissimo di aver distrutto il mercato discografico tramite la sua Napster, ma in realtà ha solo distrutto il mercato medio-piccolo, più sperimentale, uccidendo chi più credeva nella rivoluzione di internet. Poiché le major si sono protette ora c’è solo il grande mercato e basta. Internet è però ancora un territorio di connessione. Anni fa per mandare i video ai festival dovevo fare la fila alle poste, spedendo cassette pesantissime a costi allucinanti, adesso invece mando un file via internet. Questa è la rivoluzione vera è propria: rendere certe cose più semplici ed efficienti. 

Ha però smaterializzato il lavoro, soprattutto quello dei produttori di contenuti culturali: perché pagare un’opera quando posso vedere migliaia di contenuti gratis su Youtube o Vimeo? Non voglio fare un discorso da "vecchio sindacato", ma purtroppo questo è andato a scapito dei produttori di contenuti, favorendo al contempo le grandi piattaforme, le uniche in fondo ad avere dei ricavi. Forse ciò che è davvero cambiato è il nostro rapporto con la socialità: con i social network anch’essa è diventata immagine, ovvero il riflesso o un’ombra di qualcos’altro. Il termine immagine deriva dal latino ‘Imago’ che significa maschera funeraria, quella che veniva messa sul viso dei morti. Bisogna saper separare l’immagine delle persone da ciò che in realtà sono. 

Proprio come quando si posa davanti ad una videocamera, sui social network ci si mette in scena, e non si è altro che partecipi di un grande spettacolo, detto alla Guy Debord. Si pensa di interagire e con persone reali ma in realtà si tratta solo di grumi di pixel, dati digitali. Su questa contraddizione si è basata tutta la situazione sociale negli ultimi anni: non c’è socialità su internet ma solo un grande scambio di dati, proprio quelli che hanno generato i grandi profitti delle piattaforme di cui si parlava. Lo spettacolo si è mescolato alla società e questo fa sì che emergano tendenze umane violente come la rabbia o l’invidia, ma potrebbe venir fuori anche qualcosa di positivo in futuro. 

LP – Un altro tema legato alle tecnologie informatiche è la psichedelia, attualmente molto discussa grazie anche a testi come La scommessa psichedelica (2020) di Federico di Vita. Secondo alcuni anche le sostanze allucinogene sarebbero delle tecnologie. Mi viene in mente il caso di Douglas Engelbart, il quale avrebbe inventato il mouse durante un trip di acidi. Dove sta il punto di congiunzione tra questi due mondi?

AA – Il discorso era già in voga negli anni ‘90 ed è legato ancora una volta alla cultura cyberpunk. L’origine di questo parallelo risiede nella collusione tra cultura alternativa e imprenditorialità californiana negli anni ‘60 e ‘70. Sean parker, già citato prima, era un fricchettone [ride] e non è un caso che la maggior parte delle nuove tecnologie nascano in California. La grande possibilità di sperimentare con la tecnologia e gli psichedelici ha prodotto l’idea che la libertà tecnologica e mentale fossero connesse. Le tecnologie erano le famose “porte della percezione” di Aldous Huxley, una specie di protesi fisica tecnologica che poteva aprire la mente ad una nuova percezione del mondo. Quindi molto simile all’uso delle droghe psicotrope.

Col fenomeno cyberpunk tutto questo è esploso grazie all’idea romantica che le nuove tecnologie potessero davvero offrire una visione del futuro, nuova libertà, orizzontalizzazione della cultura basata sulla partecipazione. Per questo internet si è collegato bene a questa cultura: è stato visto come il perfetto terreno per la partecipazione collettiva e quindi come nuova forma di democratizzazione dei processi culturali e politici.

LP – Proviamo ad espandere il discorso. Da un punto di vista religioso l’umano progredisce tecnologicamente per porre rimedio al peccato originale. Si cerca un rimedio al lavoro, il dolore e la morte attraverso il progresso. Perché accade questo fenomeno?

AA – Alcuni pensatori ritengono che tra i pericoli dell’integrazione del digitale all’interno delle nostre vite ci sia l’intendere la tecnologia al pari di una divinità da adorare, capace di realizzare certe promesse, tra cui l’eternità:  nostri profili social possono perdurare anche dopo la nostra morte. Si può, in un certo senso, continuare ad esistere in versione digitale. Questo cambiamento radicale del concetto di morte è un tema che tratto spesso all’interno dei miei video, un cambiamento che chiamo la fine della fine. Il concetto stesso di fine è superato poiché il digitale permette un carico di dati incredibile che possono perdurare per sempre, fino a far straripare gli archivi. Questa dilatazione dei concetti di tempo e spazio si risolve in una promessa di fine della morte. Se però elimini la morte, elimini anche il concetto di vita. Se elimini la fine elimini anche il concetto di durante, e a quel punto che vita si vive? L’idea di vivere senza pensare alla morte è agghiacciante poiché significa che la vita viene annullata. 

LP – Un artista che ha a che fare con questi temi non sente a volte la responsabilità di mantenere uno sguardo propositivo verso queste tecnologie?

AA – Esiste la solita divisione tra apocalittici e ‘integrati’, nel senso che ci sono correnti di artisti più positive e altre più negative, che vedono la tecnologia come qualcosa di irrimediabilmente dannoso. Io mi pongo al confine tra le due visioni, cioè il punto in cui avvengono le contraddizioni più interessanti. Per me il digitale è un progresso sotto tutti i punti di vista, va però ovviamente gestito dalla mano che lo brandisce. L’artista deve, in qualche modo, essere un veggente; ovvero colui che ha il compito di guardare in un oltre, alla ricerca di risposte. Tendo a mettere sempre un accento su quello che c’è di negativo, seppur da un punto di vista che rimane soggettivo. In quest’epoca c’è una sorta di plastificazione dei sentimenti e delle reazioni emotive, per cui spesso si ha paura delle reazioni negative, mentre in verità sono proprio queste le più foriere di elementi creativi. C’è una sorta di New Age di ritorno, sia religiosa che estetica, che percepisco come pericolosa. Dato che gli incubi esistono, i discorsi artistici scomodi vanno esplorati, soprattutto col digitale.

LP – Ruotare attorno ai confini, le contraddizioni e gli scontri tra opposti sono dunque una cifra stilistica della tua arte. Ma a cosa ti riferisci citando questa New Age di ritorno? 

AA – Mi riferisco alla paura di dover affrontare gli spigoli, soprattutto dal punto di vista culturale. C’è una sorta di ricerca spasmodica di un discorso culturale che non implichi uno scontro con lo spettatore. Esempio di questo sono quei tipi di forme d’arte che cercano sempre più di accomodare lo spettatore; come le opere interattive, dove il pubblico diventa protagonista o giocatore. Per quanto siano modalità interessanti preferisco lo scontro, non mi interessa che il mio pubblico faccia parte delle mie opere o si metta a giocare, ma che  pensi e rifletta, che accenda le sinapsi. Questo tipo di rapporto con lo spettatore lo si può vedere anche al cinema: un film come Fight Club (David Fincher, 1999) dopo l’11 settembre 2001 nessuno l’avrebbe mai prodotto dal momento che improvvisamente determinati immaginari hanno iniziato a far paura.  

LP – In ultimo vorrei a questo punto chiederti quanto ti interessi di videogiochi e, se si, quale titolo ha catturato maggiormente la tua attenzione. 

AA – Sembrerà strano, ma non sono mai stato un videogiocatore. Non ne sono mai stato particolarmente attratto, ma adoro vedere la gente giocare ai videogiochi e sono più uno spettatore passivo [ride]. In qualche modo, come detto anche prima col discorso della maschera mortuaria, per me l’immagine è qualcosa di misterioso e deve rimanere così, sia da fruitore, che da artista. Per cui tutte quelle dinamiche che mi fanno entrare dentro ai videogiochi, dentro alla realtà virtuale, dentro all’immagine, a me interessano molto poco, perché il mistero viene annullato. Trovo orribili i giochi sparatutto, troppo frenetici e competitivi, mentre al contrario mi piacciono i titoli dall’esperienza di gioco distesa; lo trovo molto interessante e curioso, poiché elimina la logica dei livelli e del progresso.

Hai letto: Attualità digitale, destino cyberpunk – Intervista ad Alessandro Amaducci

In copertina: Remake Remodel, 2017 | Alessandro Amaducci

https://ciclesmagazine.com/alessandro-amaducci-intervista/ (2021)

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