Documentari/Documentaries
I video presenti nella galleria non rappresentano la totalità delle produzioni di questo genere. L'elenco completo dei documentari è nella pagina CV.
The videos in the gallery do not represent all the productions of this genre. The complete list of documentaries is in the CV page.
RECENSIONI
Arrigo Lora Totino, il teatro della parola
“Esperimento che nasce dalla collaborazione di due artisti torinesi di diversa generazione (il video è di Alessandro Amaducci, la performance di Arrigo Lora-Totino), l'opera è tratta dal Videocatalogo edito in occasione della omonima mostra curata da Mirella Bandini presso il Circolo degli Artisti di Torino. Frammenti di performances e alcune "poesie ginniche" eseguite per la ripresa da Arrigo-Lora Totino vengono rielaborate elettronicamente per diventare qualcosa che, pur nell'intento documentario, acquista valore di opera sperimentale, mediante l'utilizzo di tecniche video e di postproduzione che investono la performance con molteplici elementi linguistici.”
Caterina Davinio, catalogo on line di Poevisioni elettroniche, http://xoomer.virgilio.it/cprezi/catalogopoe.html (1997)
Dybbuk, memorie dei campi
L’attività presso l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino ha (...) permesso a questo autore di ripensare il documentario in pellicola e il film d’archivio, mettendolo a confronto con le possibilità di una “impaginazione” (e quindi di una rilettura) in video che lo “dialettizzasse”, creando estensioni all’oggi, confronti con testi scritti sullo schermo, combinazioni grafiche, inserzioni di documenti fiction.
Sandra Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Roma, Biblioteca di Bianco e Nero, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, pg. 112
Nei suoi video e nelle sue dichiarazioni Amaducci insiste soprattutto sulla differenza dell’immagine elettronica, la cui natura tecnica le conferirebbe un carattere malleabile e metamorfico, quella instabilità, labilità, permeabilità, che ben rappresenta, tra l’altro, il funzionamento della nostra stessa memoria. Nelle sue realizzazioni Amaducci tenta di rendere questa peculiarità, individuando nel trattamento dell’immagine il segno distintivo di un’arte che trasforma non la realtà in ombre, ma le stesse immagini in ricordi di immagini. (...) È interessante allora osservare come tale approccio, che è ciò che permette ad Amaducci di attraversare tutti i “generi” del video, venga applicato nei lavori su commissione per l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, volti a restituire un contenuto storico preciso, memorie forti, quali le vicende legate al nazismo o le lotte operaie.
La finalità didattica che sta alla base di questi documentari, inseriti in collane che l’Archivio concepisce soprattutto per scuole ed enti pubblici, sicuramente costringe a frenare l’impulso manipolatorio di Amaducci, tenuto a rispettare le griglie di un discorso determinato. Ma, pur nell’ambito del tipico approccio del documentario tradizionale, che isola e svolge un soggetto privilegiando lo sviluppo cronologico e la completezza del dato informativo, l’intervento elettronico di Amaducci consente di vitalizzare i temi, indicando soluzioni efficaci di “impaginazione” di materiali storici.
Aurora Fornuto, I ricordi al di sotto di tutto, in Valentina Valentini (a cura di), Prospetti, video d’autore 1986-1995, Roma, Gangemi Editore, 1995, pg. 153.
Nell’autunno del ’95, durante la fase di progettazione di un video sui campi di concentramento per l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, Daniele Gaglianone e io cogliamo l’occasione per andare a vedere uno spettacolo di Moni Ovadia, Dybbuk, allo scopo di valutare se è il caso di coinvolgere Moni nell’operazione.
Andiamo a Milano, al Franco Parenti: è la prima volta che vedo Moni in scena, ed è la prima volta che ascolto le musiche klezmer e il suono del linguaggio yiddish. Soprattutto, è la prima volta che mi accosto ai testi che ispirano lo spettacolo: Il dybbuk di An-Ski e Il canto del popolo ebraico massacrato di Ytzchak Katzenelson. Sono affascinato dalla miscela sonora dello spettacolo, e i testi in yiddish mi inchiodano anche se vorrei che il tutto fosse recitato in italiano perché le poesie sono bellissime.
Alla fine dello spettacolo, spiego in poche parole il progetto a Moni, che si rivela di una rara disponiblità: accetta subito, ma è la persona più indaffarata del mondo, bisogna stargli molto dietro, ricordargli continuamente le cose. L’idea è quella di far sì che Moni entri fisicamente dentro le immagini di repertorio attraverso il chroma-key, un effetto per cui, dato un personaggio su sfondo blu, al posto del background si possono inserire altre immagini. Gli chiedo di recitare in italiano, ma alla fine, dopo una serie di pressioni da parte sua, cedo all’yiddish. Il video si intitolerà Dybbuk, memorie dei campi.
Dopo varie vicissitudini, le riprese finiscono per coincidere con le vacanze di Natale, e Moni ospita me e Daniele a casa sua, dove lavoreremo. Ci siamo portati dei panni blu perché fungano da sfondo: è l’unica soluzione perché cercare in quel periodo studi attrezzati è un’impresa ardua. Moni guarda un po’ perplesso me e Daniele quando cominciamo a spostare mobili e ad attaccare coi chiodi le strisce di stoffa che, ovviamente, si spiegazzano e creano un sacco di ombre, ma non eccepisce su nulla. Facciamo subito una prova di ripresa e sembra che la cosa funzioni.
Le riprese vengono effettuate in due giorni. “Sono il tuo attore: sei tu il regista” è la frase che Moni mi dice più spesso, sapendo benissimo di essere un personaggio molto difficile da gestire: comunque più di una volta dice di essere contento di non essere troppo presente all’interno del video. Una scena in cui lui, seduto in esterni su una sedia, recita un barzelletta, viene ripetuta sette volte; il freddo è intenso ma Moni non si lamenta, così come quando, dovendo toccare il panno blu, si ferisce a causa di un chiodo messo male.
Mi ha stupito vedere un attore, assolutamente straripante e incontenibile in scena, diventare così misurato e paziente di fronte ad una telecamera. Comunque, appena spente le macchine, Moni “torna in scena”: gesticola, è un torrente in piena di parole, di ricordi, di barzellette, di ironia. Sulle donne a me e a Daniele dà consigli paterni. Comunque durante le riprese non fa assolutamente pesare la differenza di età e, ovviamente, di esperienza. “Sei tu il regista”, continua a dirmi con un sorrisetto ironico, credo più come suggello di un’istinitiva fiducia nei miei confronti, che per stabilire una reale gerarchia professionale.
Quello che più mi ricordo è il suo sguardo, a metà fra il perplesso e il rassegnato, ogni volta che entrava in quella stanza con una parete tappezzata, un po’ malamente, di panni blu.
Alessandro Amaducci, Moni Ovadia e la stanza blu, Anteprima Torino, n.2 anno 4, febbraio 1998, Torino, Lindau, pg.8
Il giudizio di Norimberga
D’altronde, Amaducci lavora in profondità sulla memoria contaminata o meno con la videoarte. Lo fa con lavori realizzati per l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino. In tale linea si inseriscono Work in Progress, Aleph-Taw, memorie dello sterminio, Alda Bianco, una staffetta partigiana, e il recente Il giudizio di Norimberga. Sono lavori, soprattutto i primi due, in cui rispettivamente la memoria partigiana e quella della persecuzione nazista subita dal popolo ebraico confluiscono nel territorio della videoarte, dell’uso del video, come terreno di ricerca, in questo caso per non lasciare isolata oppure chiusa in un discorso visivo tradizionale la memoria storica.
Giuseppe Gariazzo, Il documentario indipendente italiano, Sopralluoghi, SNCCI, Festival dei Popoli, 1994, pg.29
Strutturato come un coinvolgente iperteso, Il giudizio di Norimberga di Alessandro Amaducci ricostruisce attraverso i documenti filmati, fotografici e schede sintetiche gli eventi e i protagonisti del drammatico confronto tra criminali nazisti e tribunale alleato. La puntualità storica è affiancata da un’ineccepibile veste estetica (...)
Francesca Vatteroni, Quella voglia matta di corto, Prima Visione, Dicembre 1994, pg.46
Aleph-Taw, memorie dello sterminio
Alessandro Amaducci neoarchivista. Ci sono cercatori d’immagini d’archivio, assemblatori oculati di filmati d’epoca che fanno video nuovi con vecchi fotogrammi. Nel panorama dei giovani videoartisti italiani, Alessandro Amaducci è uno di questi. Con cura sa trattare, infatti, piani di seconda mano, per farne ora emozioni, ora informazioni che ancora scottano lo sguardo. In Aleph-Taw, memorie dello sterminio Amaducci introduce alcuni documenti storici di torride crudeltà naziste contro gli ebrei, con un graduale percorso fatto di parole chiave e date (dal settembre 1939 al maggio ’45). Ghetto, Progrom, Stella di David, Svastica s’intersecano con le immagini e il piccolo schermo diventa, così, ora pagina di vocabolario, ora iper-testo di storia. Dedicato a Miriam Novitch e prodotto da Ancr e la torinese Cooperativa 28 Dicembre, Aleph-Taw può funzionare come schiaffone ai nuovi nazistelli in circolazione.
Ninì Candalino, Memorie privete, memorie dello sterminio, Il Manifesto, 17 aprile 1993, (Suq n. 69, pg.2)
La giuria assegna il premio, recita la motivazione ufficiale, ad un documentario che, sulla traccia narrativa della vicenda tragica del ghetto di Varsavia, espressa nella ricchezza e nella novità dei materiali d’archivio, struttura un racconto intenso e severo, in grado di fondere le emozioni con la riflessione storica e di esaltare la drammaticità delle immagini con nuovi apporti stilistici. Il documentario è il frutto della collaborazione della Cooperativa 28 Dicembre e dell’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza di Torino.
Dunque, la ricostruzione storica alla base del lavoro del vincitore. Nell’anno in cui in tv hanno spopolato e suscitato estremo dibattito i Combat Film, i documentari realizzati dalle truppe della Liberazione, finalmente non più coperti dal top secret della guerra fredda, Amaducci è riuscito a calamitare l’attenzione con materiale inedito.
AAVV, Il Messaggero Edizione Marche, 28 agosto 1994
Work in Progress
Ricordare le lunghe lotte della classe operaia torinese, “fissandosi” soprattutto su due momenti determinanti, quelli che si verificarono nel 1915 e nel 1973. Viaggiare in tempi lontani/vicini, raccogliere testimonianze di gente uscendo dal tessuto della documentazione sociale tout-court, come avviene nel suo ultimo lavoro, Work in Progress. Dal ’15 al ’73 ad un presente da visitare filmando i luoghi, le fabbriche, che “accolsero” corpi, ora ridotte a scheletri, a piani e enormi stanze distrutte dal tempo. Sono strutture che Amaducci penetra con la steadicam, con movimenti di vertigine che si fermano appena in tempo, prima del vuoto esterno ed estremo, oltre pareti senza più porte finestre: limiti.
È un percorrere gli spazi fino in fondo. E ritornare su di essi. Fino a sfinirli, ma mai del tutto. (...) Materiali documenti testimonianze con-vivono, gli uomini che lottano nelle fabbriche “si ritrovano” dentro esse, dopo le lotte e le sconfitte, tras-portati lì dallo sguardo elettronico ma pulsante di Amaducci. Interferenze, ancora. Tra corpi e voci e tempi. E materie, anche, interferiscono: il video, ma dentro Work in Progress anche frammenti di lavori in pellicola recuperati dagli anni Settanta durante le manifestazioni di piazza (...). Segnali sempre di memoria e di resistenza.
Giuseppe Gariazzo, Massimo Causo, Schegge di giovanissimi, Filmcritica 436, giugno/luglio 1993