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Videopoesia/Videopoetry

Videoarte/Videoart

Poetrytelling
L’immagine elettronica e digitale lavorano con linguaggi che utilizzano la sintesi come strumento principale. L’unica formula letteraria che si avvicina a questo processo è la poesia: poetrytelling, e non storytelling. Interpretare poeticamente il mondo trasformando la parola in immagine e viceversa.


Poetrytelling

The electronic and digital image work with languages that use synthesis as the main tool. The only literary formula that comes close to this process is poetry: poetrytelling, and not storytelling. Poetically interpreting the world by transforming the word into an image and vice versa.

RECENSIONI/REVIEWS

 

Spoon River

In questa serie di brevi e folgoranti ritratti di trapassati, esplicitamente ispirata alla celebre Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters (1915), Alessandro Amaducci si misura di nuovo (dopo Illuminazioni, da Rimbaud, realizzato nel 1994) con la sfida della scrittura, della sonorità e della visualità poetiche. Il video, concepito come una serie (ogni ritratto dura intorno ai due minuti), mette in immagini e suoni i testi poetici, adoperando tutte le risorse del linguaggio elettronico per arricchire di simboli, evocazioni, stratificazioni, echi, i racconti di chi non è più. Come in un sogno, o in un incubo, le parole (dette, ma spesso anche, o solo, scritte sullo schermo) evocano brandelli di memoria della vita terrestre, che si incarnano in prelievi da una sterminata banca dati del nostro immaginario, sottoposta alle metamorfosi video: frammenti di vecchi film (comici, classici, d'animazione, d'avanguardia) ma anche riprese di corpi allucinati, di transiti di folla, astrazioni, giochi di forme e colori. La scrittura, come la voce, esita o traballa, annaspa o si dilata, ammonisce o si dilegua. Una galleria di ritratti in cui Amaducci (che è anche teorico e studioso dell'arte elettronica) inscrive, in filigrana, le proprie idee sulla particolare capacità del video a rappresentare la labilità e frammentarietà della memoria e sulla potenza visionaria e onirica delle metamorfosi elettroniche.
Sandra Lischi, Spoon River, in Alessandro Amaducci (a cura di), Indiscipline, Invideo 2000, Santhià, GS, pg. 84

(...) Ma l’occasione per parlare del videoartista torinese è offerta dalla sua ultima opera, Spoon River, che segna senza dubbio un punto d’arrivo nella sua estetica. È intuibile che l’ambizione di trasporre la celebre antologia di poesie dell’americano Edgar Lee Masters nasce proprio dal fatto che il video di creazione - libero da qualsiasi regola narrativa e da qualsiasi struttura lineare - è il mezzo più adatto per visualizzare la parola poetica. L’autore dice a questo proposito: “(...) Come dare voce ad una forma letteraria, quella poetica, che è stata scritta per una lettura muta, mentale?” I ritratti dedicati ai defunti che giacciono sulla collina tentano di dare risposta al quesito nel modo più articolato possibile, utilizzando immagini di repertorio, classici del cinema, lettering, voci fuori campo, interventi di computer graphic e computer animation, riprese dal vero rielaborate, ecc. Come per molti altri suoi lavori, Amaducci decide di essere soprattutto un ricercatore iconografico, un catalogatore, un assemblatore. La sua stessa profonda conoscenza della videoarte e del cinema sperimentale, lo portano a fare citazioni (da Anger alla Deren), oppure riutilizzare tecniche di manipolazione che sono diventate la cifra stilistica di molti altri autori. Il suo è in qualche modo un azzardo, una sfida tutta giocata all’interno del linguaggio. Il misurarsi a lungo con la tecnica non è tuttavia un puro formalismo, ma una scelta precisa dettata sia dalla sua convinzione che la pratica genera la teoria e viceversa, sia da una riflessione sul farsi dell’immagine in relazione al (dis)farsi della poesia.
Vi sono alcune costanti negli episodi: per esempio il fatto che i “dormienti” vengono quasi sempre raffigurati in forma di fotocopia, per accentuare in fondo la loro natura di fantasmi. La morte è come un sogno per Masters così come per Amaducci. Dunque l’evocazione dei personaggi tramite la loro voce, che muta di volta in volta (limpida, sussurrata, deformata, ecc.) crea una suggestione onirica che si riverbera sulla creazione e sulla scansione delle immagini, astratte o figurative che siano. Il primo ritratto è naturalmente quello dell’ottico Dippold, e serve in qualche modo da prologo per definire le infinite modalità del vedere. Oltre a questo, gli episodi più riusciti sono Jenny M’Grew, Fletcher Mc Gee, Ernest Hyde, Rosie Roberts e Amelia Garrick. Ma è chiaro che soltanto una visione d’insieme può restituirci la complessità e la visionarietà che è alla base di tutto il progetto: la continua variazione su un tema che - al di là delle allegorie di Masters - resta per Amaducci l’equivalenza tra scrittura visiva e scrittura poetica.”
Bruno Di Marino, La tecnica in versi. Spoon River, l’ultima opera di Alessandro Amaducci, Ars n. 40, aprile 2001, Milano, De Agostini, pg. 70

 

Alessandro Amaducci, dopo aver “riletto” in video le Illuminations di Rimbaud (1994) e dopo un periodo di contatto intenso con immagini d’archivio (anche drammatiche) presso l’Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza a Torino trova ne L’antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters un testo che racchiude in sé varie suggestioni possibili, alcune delle quali già esplorate dall’autore video: la poesia, ovviamente, ma anche una dimensione surreale e onirica - cui il video, secondo le teorizzazioni di Amaducci, che è anche uno studioso di videoarte, si attaglia particolarmente -, la memoria, di fatti tragici ma anche della quotidianità, l’oltrepassamento dei linguaggi consueti, attraverso la poesia, appunto, ma anche dei confini fra vivi e morti, silenzio e parola, presenza e assenza (...). In Spoon River (1999-2002), costituito da una serie di brevi ritratti (da due a quattro minuti ciascuno) corrispondenti ad altrettante poesie e personaggi, il trattamento elettronico dell’immagine e del suono consente sia di ascoltare il testo (come se fosse detto dal o dalla protagonista del racconto in prima persona) che, talvolta, di leggerlo sullo schermo: ma il testo stesso, come la voce e come le immagini che lo accompagnano, è sottoposto a metamorfosi, esita, ondeggia, si fa minuscolo o imponente, trema, scompare. In alcuni episodi, il difficile compito di dare suono alla voce dei trapassati (oltre che al testo poetico stesso) viene eluso, e il testo viene affidato esclusivamente alle immagini - evocative, stratificate, evanescenti, mai illustrative e didascaliche - e ai versi scritti, in modi diversi e con ritmo e andamento cangiante, sullo schermo. Il problema antico e irrisolto della voce della poesia (il cui lettore ideale è secondo alcuni, e ove possibile, l’autore stesso), viene qui affidato a una duplice possibilità: la recitazione - che, affidata agli interpreti più diversi, va da effetti di straniamento a sottolineature caricaturali e “medianiche” fino a una dizione il più possibile semplice e piana - e/o la lettura, seppure alterata rispetto alle modalità della pagina scritta.”
Sandra Lischi, Visioni elettroniche. L’oltre del cinema e l’arte del video, Roma, Biblioteca di Bianco e Nero, Fondazione Scuola Nazionale di Cinema, 2001, pg. 69

Una lama affilata fende il buio dello schermo, da questa lacerazione emergono dita incorporee, un occhio, un intero mondo sommerso che si materializza dal fascio di luce del proiettore. Personaggi evanescenti acquistano corporeità e raccontano la propria storia. (...) Alessandro Amaducci, classe 1967, studioso di arti elettroniche, v.j. e autore di talento, ci riprova. Dopo Illuminazioni del 1994 è la volta di questo video, proiettato in anteprima (e ancora in versione provvisoria) al Cineclub Arsenale di Pisa (...). Amaducci inchioda lo spettatore alla poltrona con il disagio arcano di una voce surreale, che sfrutta l’immagine e la deforma, insinuandosi nelle pieghe del quotidiano. Sono venticinque i “segnali elettronici” che i morti ci inviano dalla collina, voci che di volta in volta “recitano” la loro storia oppure lasciano tracce evanescenti tramite parole sbiadite su sfondo scuro. “Ho pensato che lo spirito fosse il suono e che l’immagine fosse delegata a qualcos’altro; è la voce che rappresenta l’osmosi tra il mondo dei morti e il mondo dei vivi”. E i suoni sono voci distorte, pianti isterici, alti e bassi che colpiscono allo stomaco. Su questa colonna sonora (...) si iscrivono le immagini ricorrenti di volti schiacciati contro membrane invisibili, ectoplasmi che emergono da dietro gli angoli delle case, mentre istantanee sfocate della guerra (...) si sovrappongono a idoli tribali e star del cinema, a riprese tv ed alle spirali magnetiche di un frattale. Il linguaggio digitale esplora se stesso, dilatandosi e contraendosi all’infinito, raggiungendo possibilità espressive che non sono già più videoarte e che sono qualcosa di diverso dal cinema. E lo fa tramite una sovrapposizione materica di vecchie foto di fiori e cadaveri, squarci di dolore e di luce, disegni, caleidoscopi di immagini elettroniche, con uno scavo archeologici negli archivi della memoria che riporta in superficie, come nelle migliori tavole di Dave McKean, visioni sfuggenti tra sacro e profano. (...) La predilizione del “diverso” ed il bianco e nero sfocato creano un universo parallelo imbevuto di ossessioni malinconiche, che ricorda le opere più inquietanti di Joel-Peter Witkin. I 25 micro-racconti narrano l’interiorità di uomini e donne che hanno vissuto, lottato, amato, soprattutto odiato. Questo, per Amaducci, è il messaggio dei morti. Non la critica ai mali degli Stati Uniti e alle cosiddette “libertà americane” che in molti (primo fra tutti, Pavese) hanno ritrovato nelle parole di Masters. Ma forse, in questi tempi di guerre chirurgiche e di giustizie infinite, nemmeno i morti avrebbero più voglia di ripetere verità stanche all’orecchio di un sordo.
Gabriela Jacomella, Spoon River, voci elettroniche dall’aldilà, Il Manifesto, pg.15, 10 gennaio 2002

Se l'immagine elettronica, per Amaducci, è la più adatta a rappresentare il pensiero, il sogno, la memoria, e il confine fra questi stati mentali, le "illuminazioni" di Rimbaud (1994) ma, ancor più, i frammenti di vita evocati dai morti della collina (Spoon River, 1999-2003) sono per lui un terreno ideale di ricerca visivo-sonora. (...) Simboli, echi, risonanze, richiami all'inconscio (col rischio cosciente, e talvolta per me inquietante, di derive metafisiche e spiritualiste) aleggiano (...) nel video Spoon River, grande affresco digitale delle umane esistenze, lungo fatto di corti (o corto di lunga durata), in cui le voci dei morti raccontano ai vivi, e il mondo dell'aldilà preme sullo schermo come a volerlo forzare: scrittura, immagine, suono, bianco e nero e colore, dialogano fra loro e con una sapiente mescolanza di immaginari collettivi prelevati da film, creati al computer, ripresi dal vero, e la metamorfosi consentita dall'immagine elettronica diventa luogo del transito, ritratto imperfetto e quindi calzante della condizione di soglia tra vita e morte, vicenda vissuta e vicenda ricordata, solitudine e comunicazione, racconto e trasfigurazione, costruzione e de-composizione di forme e di narrazioni. Immagini astratte, struggenti rievocazioni di brandelli di esistenze sofferte eppure rimpiante, oggetti, voci trasfigurate o affidate a incerte e fluttuanti scritture sullo schermo, volti appena intravisti, ombre, corpi, ambienti deserti, abbandonati dal tempo e dalla vita, presenze-assenze si susseguono inanellandosi e mescolando i propri destini.
Certo deve aver contato, in questa scelta delle poesie di Edgar Lee Masters e nella accurata e acuta rappresentazione delle "anime morte", la solitaria e paziente frequentazione notturna di vecchie pellicole dell'Archivio torinese, di fantasmi fotografici provenienti dai lager nazisti o dalle brigate partigiane, di voci e volti del passato, mangiati dall'usura, dal tempo, dal dolore. Ombre, "la morte al lavoro" incarnata dal cinema stesso. Ombre in qualche modo riportate alla vita, ri-attualizzate, dall'incessante vibrazione dell'immagine elettronica, dalla nuova impaginazione e dalla ri-scrittura video.
In questo importante e imponente lavoro ispirato a Spoon River Amaducci sembra aver trovato uno "stile" compiuto, che raccoglie e armonizza le sue tante direzioni di ricerca coniugando sperimentazione formale e anti-naturalistica, invenzione e narrazione poetica, simbologia e richiami all'immaginario collettivo, visionarietà, esplorazione creativa dell'universo sonoro, arte del ritratto, testimonianza storica, cronaca, felicità cromatica, stratificazioni evocative. Senza dimenticare ritmi e ricchezze visive a cui una certa videomusica non illustrativa ha abituato sguardi e menti delle generazioni più giovani, quelle "nate con la televisione in casa". Un testo fatto di tanti testi, e insieme lo spunto per "altre" storie: quelle dell'immagine elettronica, che sono innanzitutto storie di forme, trame luminose prima ancora che trame narrative.
Sandra Lischi, Alessandro Amaducci. Palinsesti della memoria in Alessandro Amaducci, Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia, Torino, Lindau, 2003, pg.151

Spoon River di Alessandro Amaducci è una delle più raffinate opere videoart che si sia prodotto in Italia. Le potenzialità dell'immagine elettronica sono sfruttate in senso pittorico, attraverso un dinamismo coerente e quasi sempre essenziale.
Siamo ben lontani dalle facili allusioni di certa videoart commerciale, così come dalle pretese cognitive di molte installazioni interattive. In quest'opera, emerge un'impressione autoriale notevole e ben delineata. Una presenza forte, irremovibilmente allineata al corso dell'Arte e della sua Storia.
Dal punto di vista iconografico, Amaducci sa rivestire ed avvolgere con intuito poetico; da un punto di vista tecnico, si comporta da sapiente artigiano, e richiama a pieno le possibilità offerte dal digitale. Eppure, non supera mai una certa soglia bidimensionale, mantenendo questa ricerca ben lontano dalla fantasmagoria, dall'intrattenimento visivo, dalla sospensione della criticità.
Con Spoon River Amaducci compie un'operazione semplice e importante. Ancora una volta, ma forse "più forte di prima", l'autore determina un ambito creativo, un "approccio" all'immagine elettronica che ne evidenzi in modo chiaro e semplice le potenzialità simboliche.
Ma in questo senso, delineando e forse salvaguardando una via, non la percorre con intenzioni radicali, e lascia nello spettautore un senso di richiamo al dovere.
La via di ricerca che ci viene in qualche modo indicata, non avrà facili conferme, e forse non ha più nemmeno molti spettatori. Tuttavia, essa travalica il concetto di "videoarte", se ne infischia di certa attualità, di questa svuotante orizzontalizzazione, e ci riconduce innanzi a ciò che importa: il nostro confronto con noi stessi, con le nostre profondità; forse, con l'esserci.
Dropoutexperience
http://www.cronotipi.splinder.com/post/15014224/


Alessandro Amaducci è un videoartista e un teorico della videoarte, i suoi lavori mirano alla creazione di un universo poetico audiovisivo inventivo, fantasioso, onirico (ma anche da incubo). La tecnologia viene applicata per rubare immagini e soggiogarle alla propria fantasia, animarle di nuova vita, mischiarle e deturparle. Il video per Amaducci è un'entità liquida che la tecnologia, subordinata all'immaginazione dell'artista, modifica e controlla, manomette e riordina.
L'incontro tra la sua poetica del video e le poesie di Spoon River di Edgar Lee Masters ha generato una serie di ritratti in cui la poesia di Masters si fonde in una sorta di evocazione audiovisiva potente.
Questo progetto, la cui gestazione è durata anni, ha trovato ora (dopo diverse proiezioni parziali in festival e rassegne) una sua forma. Un DVD con libro dalla fattura davvero preziosa: Alessandro Amaducci, Spoon River, edito dalla casa editrice Kaplan di Torino.
Simone Arcagni, Nova 100 Il Sole 24ore, Febbraio 2008

Chissà quanti si sono immaginati i volti degli abitanti del cimitero di Spoon River, leggendo l'Antologia di Edgar Lee Masters. Ogni nome, inciso su una lapide e raccontato in brevi ritratti commemorativi, ha assunto nell' immaginazione di ciascuno colori e tratti, come succede sempre nella visualizzazione «privata» che innesca la lettura. Alessandro Amaducci, esponente storico della videoarte italiana, ha provato a dare un' immagine a venticinque di quei nomi in un' antologia video che ne racconta la vita e le espressioni. Un' ora di visione per Spoon River, un lavoro di videoarte a cui Amaducci lavora da due anni, e in cui utilizza il video come laboratorio per mescolare linguaggi diversi e percezioni. Proprio in questa capacità sta il grande potenziale della videoarte, terreno di espressione in cui i confini delle categorie si mescolano e contaminano. Nello spazio della galleria Orsa Golem in via Botero 15 alle 18 inizieranno a scorrere visi e storie di venti vite passate, dall' ottico Dippold alla poetessa storpia Minerva Jones, al farmacista Trainor, ma ci saranno anche imprevedibili salti temporali in cui emergeranno dal futuro nomi come Maja Deren, filmaker americana d' avanguardia. Insieme a lui Amaducci ha voluto anche un giovanissimo creativo torinese che si firma con il nome di Almad, inventore di fumetti dal sapore fantasygotico, spesso ispirati a testi musicali e che includono anche la fotografia. Un' ulteriore proposta di visione spuria in cui il messaggio utilizza spezzoni di linguaggi diversi, dal disegno e la fotografia alla musica, all' immagine in movimento digitale e su pellicola. Squarci nel buio si intitola tutto il percorso, una mostra che invita a vedere e sentire con tutti i sensi, portandosi via un' idea composta da tanti stimoli.
Olga Gambari, La sfilata dei volti di Spoon River, La Repubblica Torino 18 Settembre 2001 pg. 14
https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2001/09/18/la-sfilata-dei-volti-di-spoon-river.html

 

Acherontia Atropos

E ancora sui luoghi e corpi da far intuire che lavorano Alessandro Amaducci e Nicoletta Polledro con Acherontia Atropos, ricomposizione e definitivo sfilacciamento di immagini che si sfuggono e amano in un percorso che fa esistere la carne, la fisicità dei corpi e quella di una memoria filmica sperimentale sulla quale si sovrappone l’immagine video mutante nelle forme della manipolazione. Una video-poesia, per immagini e parole che, insieme, documentano un evento, una performance continuamente offuscata dalle ombre e dal buio che, come un chiudersi/aprirsi di palpebre in un tempo della veglia, velano i corpi rendendoli, proprio attraverso questo procedimento, ancor più tangibili e presenti.
Giuseppe Gariazzo, Spazio Italia, Cineforum 360, n. 10, dicembre 1996, Bergamo, Federazione Italiana Cineforum, pg. 56

Il cinema corto respira. Per questo, a dispetto della metratura, gli sfondi si sono dilatati, o sarebbe meglio dire approfonditi, fino a diventare substrato del cinema “possibile” (...) o materiale di congiunzione poetica: Acherontia Atropos di Alessandro Amaducci e Nicoletta Polledro. In una specie di ritorno al preconscio (allargato, “vissuto”, non strettamente egocentrico, in grado perciò di costruire connessioni) non solo la memoria storica e privata coesistono su scenari ritrovati, e l’onirico vive nel reale autentificato, ma gli spazi insignificanti racchiudono recessi di intimità, le camere chiuse e i percorsi obbligati un infinito che non è necessario (far) vedere, il déjà vu la percezione chiara dell’atto “presente” della messa in scena. IL risultato tangibile è un alternarsi di densità e rarefazioni, di affollamenti e di vuoti, di totale immersione e di estraneità, di oscillazioni nell’universo simbolico.
Adelina Preziosi, Cinema a spazio ridotto, Segnocinema n. 89, gennaio/febbraio 1998, Vicenza, Ed. Cineforum, pg. 17

Illuminazioni – Arthur Rimbaud

Il Poeta - scrisse Rimbaud poeta visionario e simbolista dell’800 - deve farsi “veggente”, deve costruirsi un’anima mostruosa per cogliere mediante lo “sregolamento” di tutti i sensi la vera visione della Realtà. E se anche giungesse alla follia, non avrebbe importanza alcuna, perché ormai egli avrebbe colto l’assoluto nella sua vera essenza. Illuminazioni è basato su alcune poesie in prosa di Arthur Rimbaud e vorrebbe essere la summa di tutta la sua poetica. Non è solo un documentario “poetico”, ma un tentativo di ricreare visivamente l’immaginario del poeta, visto però da un’ottica contemporanea. (...) È sicuramente un video dal forte impatto visivo, simbolista almeno quanto il testo, al quale è strettamente collegato, ma non solo. I suoni trattati e le voci metalliche terrorizzano forse più che le immagini e suscitano l’angosciante attesa della morte... È la Guerra, la prostituta di ogni “tempo degli Assassini” (quello di Nagasaki è solo un esempio) che a cavalcioni del televisore sprigiona dal suo ventre la negazione della vita, la “neve” in bilico tra essere e non essere. (...) L’uomo non conosce Dio ma lo desidera e danza incerto sui bordi di questo baratro, tra la Devozione (ma probabilmente per Rimbaud faire la votre devotion significa masturbarsi) e la Distruzione. (...) Siamo padroni del silenzio che ammanta la terra dopo l’Orgia della Distruzione? Si direbbe di sì...
Francesca Rossini (a cura di), L’occhio infranto, Comune di Bari-Metropolis, pg. 59

 

Crash

Forse il Crash di Amaducci non è solo quello fisico provocato dal brivido irrefrenabile della velocità prettamente “meccanica”, alla Cronenberg... Si può venire infatti venire disintegrati anche nello spirito da un crash esistenziale della velocità temporale che ci si schiaccia contro.
Francesca Rossini (a cura di), L’occhio infranto, Comune di Bari-Metropolis, pg. 55.

Senz’altro sentire

(...) Amaducci seziona le immagini nitide della natura, scompone i quadri in una danza geometrica (bellissimo il volo d’uccelli), dove le fotografie entrano l’una nell’altra. Frantuma velocemente e ricostruisce lentamente, comunque non insensibile al dolore che la natura (umana) provoca. Le bestie vere sono dietro l’angolo, travestite da pantere e portano manganelli in mano. Per fortuna, sembra dirci la Polledro, c’è spazio anche per la poesia dei corpi. Lo sguardo oscilla tra le contraddizioni della vita senza poter dare una logica e preferisce la realtà “mostruosa” delle forme sintetiche e frattali.
Francesca Rossini (a cura di), L’occhio infranto, Comune di Bari-Metropolis, pg. 51.

Senz’altro vedere. Immaginando. Senz’altro sentire nel lavoro di percezione più che di razionalità (a una prima lettura, o a una ri-lettura mentale senza avere il tempo di ri-vedere in tempo prima di scrivere il video...) di Alessandro Amaducci e Nicoletta Polledro. Appunto, Senz’altro sentire. La “freddezza” della videoarte, i quadri che si incastrano in una (...) in-finita e mentale inquadratura, e l’emozione della lotta, da immagini di un repertorio tele-visivo del quale ri-appriopriarsi che “introducono”/ricordano la presenza del corpo-uomo. Nel tempo. E seziono tutto con la curiosità di un chirurgo e il dolore di un paziente. È una delle frasi più (e la più significativa) che transitano nel video, veloci(ssime)/lente, leggibili/illeggibili, anch’esse immagini misteriose come un corpo di donna. Da vedere, percepire, immaginare.
Giuseppe Gariazzo, Bellaria:avanguardie di ieri e di oggi, Cineforum 336, n.7/8, luglio/agosto 1994, Bergamo, Federazione Italiana Cineforum, pg. 29

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