Anche i computer sognano. A riflettere su quanto la tecnologia si stia facendo spazio nel nostro inconscio è un videomaker, Alessandro Amaducci: la sua Electric Self Anthology sta facendo il giro del mondo. Durante l’Athens Dance Video Project ne sono stati proiettati tre episodi in uno spettacolo live, in cui immagini, musica e tecnologia hanno improvvisato nuovi scenari di conoscenza. Ne abbiamo parlato con l’autore, docente di Estetica del video presso il Dams di Torino, per scoprire, tra le altre cose, che un cuore trafitto diventa più potente di ogni altra cosa.
Cos’è Electric Self Anthology?
​
È un’antologia di video dedicata al sé elettronico, quello che io definisco l’inconscio tecnologico. Il computer riesce a creare un proprio linguaggio: i programmi sono solo in parte calcolati dal programmatore, in realtà possono anche andare avanti da soli. Grazie a questa creatività di linguaggio, il computer può sviluppare una propria visione del mondo e creare propri punti di vista, diversi dal nostro.
​
I computer sognano?
​
Secondo me sì. C’è una sorta di inconscio dentro il linguaggio del digitale, che viene a contatto con il nostro nel momento in cui usiamo i computer e quindi utilizziamo immagini e icone come strumento. Il nostro immaginario incontra quello della macchina, creando mondi che in parte appartengono a noi e in parte alla macchina. Questi video tentano di rappresentare questa nuova dimensione.
​
Il corpo è l’elemento centrale dei tuoi lavori, perché?
​
La comunicazione avviene sempre più spesso a distanza e attraverso immagini, il corpo diventa un’icona sempre più usata e presente: più ci smaterializziamo dal punto di vista sociale, più, di fatto, abbiamo bisogno di un corpo.
​
Sembra un paradosso…
​
Lo è, ma è un paradosso interessante. Usiamo le nuove tecnologie – ne sono un esempio i cellulari di ultima generazione – come uno specchio, con un atteggiamento quasi adolescenziale. Ci rappresentiamo attraverso le foto e i video, utilizzando la webcam e le videochat, perché sentiamo la necessità di attestare con il corpo la nostra presenza. Ogni video di questa antologia ha un tema che affronta un aspetto di questo incontro/scontro di immaginari: si creano e si ritrovano archetipi legati al corpo, a volte molto antichi come la danza macabra, che riemergono dal nostro inconscio. Il computer lavora con il concetto di memoria, per questo a volte spuntano personaggi mitologici come la Medusa o rappresentazioni che fanno parte del nostro patrimonio culturale visivo, e quasi non ce ne rendiamo conto perché tornano sotto altra forma, trasformati dalla tecnologia.
Le figure presenti in questi video hanno due caratteristiche: possiedono un aspetto quasi bionico e sono tutti corpi femminili.
Robot, corpi bionici, scontri tra umani e macchine: immagini che stavano sottotraccia sono tornate in modo più evidente da quando la tecnologia ha chiarito e portato alla luce il nostro profondo desiderio di avere un corpo meccanico. Il progredire della tecnologia ci spinge ad inseguire l’idea di un corpo perfetto, che diventa tale anche grazie ad essa. La scelta di rappresentare figure femminili è legata alla creatività: il digitale crea. Il corpo femminile è in perenne mutamento e ha in sé il germe del cambiamento, della vita, della creatività. È più disponibile all’incontro con altri germi più tecnologici, non necessariamente negativi.
​
E in tutto questo che ruolo ha la musica?
​
Questi video sono come haiku. In ognuno viene sviluppato un tema e la musica ne supporta l’ atmosfera, scandendo i tempi e costruendo il mood intorno alle immagini. Spesso le due cose viaggiano insieme: scrivo la colonna sonora contemporaneamente alla costruzione del video; a volte, invece, scrivo prima la musica, ma avendo già in mente l’utilizzo che ne farò. La scelta di realizzare video musicali è stata dettata da un’esigenza di universalità, non volevo ci fosse la parola usata come linguaggio per spiegare. Spesso ci sono citazioni tratte da film. In Not With a Bang, video dedicato all’ immaginario della guerra, sono presenti dialoghi presi da Apocalypse Now, quasi impercettibili in quanto impastati nella musica.
​
Nei video prevale un’atmosfera cupa, quasi gotica e un profondo senso di morte. Nell’incontro/scontro tra uomo e tecnologia, chi ha la meglio?
​
La cultura digitale ha introdotto la fine del concetto di limite: il computer ha una memoria illimitata, il profilo su un social network ci sopravvive, tutti devono essere giovani, la vecchiaia non esiste più e alla fine si muore da soli in un ospedale. Pagan Inner, video dedicato alla danza macabra, parla di questo: non possiamo allontanare l’idea della morte ma possiamo danzare con essa affinché non sia un cosa spaventosa. La protagonista balla con uno scheletro e gli scheletri si moltiplicano, partoriti dalla donna stessa. Questi sono fatti in 3D: c’è sempre il digitale che ci fa intuire una possibilità in più, lo scheletro si muove perché ha una propria vita. Il digitale ci mette di fronte a tante possibilità: se lo si impiega come strumento si vince, se invece ci si fa usare, si perde.
​
In uno dei tuoi video, Bloodstream, un cuore trafitto da coltelli sanguina e le gocce si trasformano in donne. Guardandolo, ho avuto la sensazione che un coltello trapassasse anche il mio di cuore.
​
I miei video non vogliono imporre un’interpretazione, non ci sono discorsi precisi e lineari, ma vanno «sentiti», lasciando affiorare sensazioni. Si tratta di un video autobiografico, fatto di getto ed è quindi la descrizione di uno stato d’animo. La donna, minacciata da tre visi, sembra sul punto di morire. È in quel momento che i tre si allontanano, impauriti dai coltelli conficcati nel cuore: quando un cuore é trafitto diventa ancora più potente, passanso attraverso soglie di dolore che sembrano insopportabili, si diventa più forti.
​
Ora che grazie al digitale molte tecnologie sono facilmente accessibili a tutti, qual è il ruolo dell’artista?
​
Il digitale è un vantaggio che porta sconquasso: ci son tante cose inutili ma anche tante persone che fanno cose interessanti. Io stesso non riuscirei a fare questi video tranquillamente a casa mia con tre computer se avessi a disposizione solo le tecnologie analogiche di una volta, molto diverse, più costose e più pesanti. Per me l’artista è colui che sente e ascolta il mezzo che usa e lo trasforma in un tessuto emotivo, fatto di immagini e simboli. La capacità alchemica rimane invariata, a prescindere dalla tecnologia. Non importa che tu sia un talento riconosciuto o meno: artista è colui che conosce a fondo il proprio strumento e lo usa come una bacchetta magica per creare un nuovo mondo.
​
a cura di Roberta Mastruzzi, Music In
http://www.musicin.eu/?p=5604, 2011