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Sandra Lischi, Alessandro Amaducci: palinsesti della memoria

 

Alessandro Amaducci (Torino, 1967) è "nato con la televisione in casa": e proprio a quelli che sono nati con la televisione in casa ha dedicato il suo libro teorico più completo e complesso, Segnali video (1). Questo dato biografico-antropologico non è secondario, nel suo approccio critico ma soprattutto nel suo fare artistico: che sembra modellato sull'idea di un palinsesto rapido, vario, aperto all'imprevisto quotidiano, mobile, che passa senza strappi dal registro dello spettacolo a quello della riflessione teorica, dal racconto e dalla poesia alla performance, dalla rievocazione storica alla danza, dal clip al programma educativo. Amaducci è uno degli autori più versatili nel panorama della produzione videoartistica: è docente universitario, autore e curatore di libri, ma anche performer, autore di musiche, autore teatrale, v-j, ideatore di eventi culturali, bricoleur elettronico, perfino attore e "presentatore", e naturalmente autore indipendente e artista video: ma, anche come autore, passa appunto dalla realizzazione di videoclip a quella di programmi destinati al mondo giovanile e scolastico (è il caso dei tanti documentari realizzati nell'ambito della lunga collaborazione con l'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, a Torino, o di lavori come la cassetta su Il linguaggio della televisione, allegata a un manuale di scuola superiore); da "videopoemi" dedicati a Rimbaud e a Edgar Lee Masters a corti di danza, ritratti, piccole sinfonie della città e della memoria (storica, cinematografica, onirica).
Premiato in molti festival e manifestazioni, Amaducci riesce allo stesso tempo a dialogare con le istituzioni (l'Archivio già menzionato, gallerie d'arte, scuole), a "entrare" nei palinsesti televisivi (Rai Uno e Rai Tre, RaiSat, Videomusic, MTV Europe, TMC 2 e altre reti) e a mantenere una propria indipendenza progettuale e produttiva. Quindi, pur nella sua versatilità vorace e curiosa, è e resta un "irriducibile": un autore votato irrimediabilmente e con passione alla videoarte classica, innamorato delle ricerche visive e sonore di Bill Viola, dei Vasulka, di Paik, di Emshwiller, e poi di Larcher e dei tanti altri autori che ha amorevolmente e puntigliosamente analizzato nel suo ultimo libro. Tanto da essere, nel panorama teorico-critico attuale, il più anti-cinefilo, provocatoriamente attestato su un fastidio e una ripulsa nei confronti della pellicola, del cinema inteso come fiction, e devoto invece alla labilità, fluidità, vibratilità, malleabilità dell'immagine elettronica: metamorfica, instabile, priva di immobilità, disposta "naturalmente" alle associazioni, alle fusioni, ai confronti, alle sorprese e alle scoperte. Come il pensiero.
Una linea anti-naturalistica, anti-narrativa, che anche quando sceglie il racconto predilige la forma poetica, il frammento, la pièce teatrale evocativa (come in Dybbuk, 1996), lo squarcio aperto dalle immagini nel ricordo (o viceversa), come in Cattedrali della memoria (1995). Il cinema citato, metabolizzato dal video è quindi quello che ha lavorato di più sulla rappresentazione del pensiero e del sogno: nei lavori di Amaducci compaiono brandelli di film di Léger, Maya Deren, Bunuel; gli occhi, lo sguardo esibito dalle avanguardie storiche, o l'equazione fra guardare e "mirare", guardare-uccidere (o morire), «la morte in diretta, il tempo in diretta dell'immagine elettronica» (2), su cui Amaducci ha lavorato, con uno straordinario e rapidissimo "collage" filmico-elettronico, nel ritratto del "paparazzo" Tazio Secchiaroli, Solo per i tuoi occhi (1996).
Se l'immagine elettronica, per Amaducci, è la più adatta a rappresentare il pensiero, il sogno, la memoria, e il confine fra questi stati mentali, le "illuminazioni" di Rimbaud (1994) ma, ancor più, i frammenti di vita evocati dai morti della collina (Spoon River, 1999-2003) sono per lui un terreno ideale di ricerca visivo-sonora. Che trova nella frequentazione e nello studio dei simboli ulteriore nutrimento: mentre realizzava Spoon River Amaducci raccoglieva, accanto ai "segnali" mandati dalla collina, i "segnali video" del suo libro più impegnativo: qui, la lettura minuziosa di una serie di capolavori della videoarte si avvale della chiave interpretativa psicoanalitica (con qualche incursione nelle teorie scientifiche del Novecento) e in particolare dell'apparato analitico mutuato da Jung e dalla sua teoria dell'inconscio collettivo e dei simboli. Gli elementi naturali, le forme geometriche, le immagini diventano insomma altrettanti richiami a un patrimonio originario, sedimentato nello spettatore come nell'autore: una storia di echi e risonanze, attraversata e decifrata con una chiave di lettura personale, certo non accademica in senso classico, aperta a una felice e talvolta audace possibilità di arbitrio, spesso rivelatrice.
Simboli, echi, risonanze, richiami all'inconscio (col rischio cosciente, e talvolta per me inquietante, di derive metafisiche e spiritualiste) aleggiano anche nel video Spoon River, grande affresco digitale delle umane esistenze, lungo fatto di corti (o corto di lunga durata), in cui le voci dei morti raccontano ai vivi, e il mondo dell'aldilà preme sullo schermo come a volerlo forzare: scrittura, immagine, suono, bianco e nero e colore, dialogano fra loro e con una sapiente mescolanza di immaginari collettivi prelevati da film, creati al computer, ripresi dal vero, e la metamorfosi consentita dall'immagine elettronica diventa luogo del transito, ritratto imperfetto e quindi calzante della condizione di soglia tra vita e morte, vicenda vissuta e vicenda ricordata, solitudine e comunicazione, racconto e trasfigurazione, costruzione e de-composizione di forme e di narrazioni. Immagini astratte, struggenti rievocazioni di brandelli di esistenze sofferte eppure rimpiante, oggetti, voci trasfigurate o affidate a incerte e fluttuanti scritture sullo schermo, volti appena intravisti, ombre, corpi, ambienti deserti, abbandonati dal tempo e dalla vita, presenze-assenze si susseguono inanellandosi e mescolando i propri destini.
Certo deve aver contato, in questa scelta delle poesie di Edgar Lee Masters e nella accurata e acuta rappresentazione delle "anime morte", la solitaria e paziente frequentazione notturna di vecchie pellicole dell'Archivio torinese, di fantasmi fotografici provenienti dai lager nazisti o dalle brigate partigiane, di voci e volti del passato, mangiati dall'usura, dal tempo, dal dolore. Ombre, "la morte al lavoro" incarnata dal cinema stesso. Ombre in qualche modo riportate alla vita, ri-attualizzate, dall'incessante vibrazione dell'immagine elettronica, dalla nuova impaginazione e dalla ri-scrittura video.
In questo importante e imponente lavoro ispirato a Spoon River Amaducci sembra aver trovato uno "stile" compiuto, che raccoglie e armonizza le sue tante direzioni di ricerca coniugando sperimentazione formale e anti-naturalistica, invenzione e narrazione poetica, simbologia e richiami all'immaginario collettivo, visionarietà, esplorazione creativa dell'universo sonoro, arte del ritratto, testimonianza storica, cronaca, felicità cromatica, stratificazioni evocative. Senza dimenticare ritmi e ricchezze visive a cui una certa videomusica non illustrativa ha abituato sguardi e menti delle generazioni più giovani, quelle "nate con la televisione in casa". Un testo fatto di tanti testi, e insieme lo spunto per "altre" storie: quelle dell'immagine elettronica, che sono innanzitutto storie di forme, trame luminose prima ancora che trame narrative.
Amaducci non lo dimentica: continua ostinatamente a rifuggire dall'immagine realistica, dal documentario, dal film; e nello stesso tempo riesce a filtrare le storie della memoria attraverso la grande macchina poetico-tecnologica dell'immagine elettronica (analogica prima, ora digitale). Che le gratta via e le riscrive daccapo: una rivisitazione attuale, con sguardo e sensi aperti alla complessità, estesi, espansi, dell'antica tecnica del palinsesto, manoscritto di pergamena raschiato e riscritto, riscritto e raschiato, fin dove era possibile e laddove era necessario.

1): Alessandro Amaducci, Segnali video. I nuovi immaginari della videoarte, GS, Santhià, 2000
2): Alessandro Amaducci, scheda di Solo per i tuoi occhi, in Chicca Bergonzi e Patrizia Pesko (a cura di), Invideo. Mostra internazionale di video d'arte e ricerca, Charta, Milano 1998

Sandra Lischi, in Alessandro Amaducci, Banda anomala. Un profilo della videoarte monocanale in Italia, Torino, Lindau, 2003, pg. 149

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